Tra il 1861 ed il 1864 l’architetto Virginio Vespignani realizza la nuova scala e la cripta della Confessione della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma; spazi la cui qualità compositiva coincide con il ricco apparato lapideo, composto di marmi colorati e di pietre dure, che riveste tutte le superfici. Il risultato forma uno degli ultimi significativi esempi di reimpiego, in architettura, di marmi ‘antichi’ colorati; una metodologia costruttiva che appartiene alla tradizione marmoraria e al cantiere edile romano, dalla tarda antichità a tutto l’Ottocento ed oltre, corrispondendo a diverse motivazioni e logiche. Nella costruzione di tale prezioso luogo, la qualità e la varietà delle pietre furono assicurate oltre che dal frutto di scavi archeologici contemporanei, anche dalla cessione di molti marmi pregiati da parte di collezionisti, dal loro acquisto presso noti scalpellini, e da eredità di famosi pietrari romani. Nello scorrere la sequenza dei marmi e dei rispettivi proprietari, riportata nei documenti di cantiere, oltre alla misura qualitativa dell’intera ‘raccolta’ dei marmi reimpiegati, si coglie, primariamente, l’identità professionale, culturale e sociale dei diversi fornitori; emerge così un affresco del microcosmo che, ancora alla metà dell’Ottocento, combina il gusto per le pietre con gli interessi dell’archeologia, del collezionismo, del commercio e del lavoro. Un mondo intrigato, dove si sovrappongono figure diverse, quali l’archeologo, lo scavatore-inventore, lo scalpellino, il collezionista e il responsabile della tutela; una realtà che riemerge, nel saggio, nella ricostruzione del percorso compiuto - dal luogo dello scavo alla posa in opera nel manufatto architettonico - da una precisa parte delle pietre utilizzate: esattamente il giallo antico brecciato, l’africano e il cipollino provenienti dagli scavi dei Portici di Ottavia.
Marmi antichi colorati nell’architettura romana dell’Ottocento. Dallo scavo al cantiere, in “Materiali e Strutture. Problemi di conservazione”, n.s., a. II,
CIRANNA, SIMONETTA
2005-01-01
Abstract
Tra il 1861 ed il 1864 l’architetto Virginio Vespignani realizza la nuova scala e la cripta della Confessione della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma; spazi la cui qualità compositiva coincide con il ricco apparato lapideo, composto di marmi colorati e di pietre dure, che riveste tutte le superfici. Il risultato forma uno degli ultimi significativi esempi di reimpiego, in architettura, di marmi ‘antichi’ colorati; una metodologia costruttiva che appartiene alla tradizione marmoraria e al cantiere edile romano, dalla tarda antichità a tutto l’Ottocento ed oltre, corrispondendo a diverse motivazioni e logiche. Nella costruzione di tale prezioso luogo, la qualità e la varietà delle pietre furono assicurate oltre che dal frutto di scavi archeologici contemporanei, anche dalla cessione di molti marmi pregiati da parte di collezionisti, dal loro acquisto presso noti scalpellini, e da eredità di famosi pietrari romani. Nello scorrere la sequenza dei marmi e dei rispettivi proprietari, riportata nei documenti di cantiere, oltre alla misura qualitativa dell’intera ‘raccolta’ dei marmi reimpiegati, si coglie, primariamente, l’identità professionale, culturale e sociale dei diversi fornitori; emerge così un affresco del microcosmo che, ancora alla metà dell’Ottocento, combina il gusto per le pietre con gli interessi dell’archeologia, del collezionismo, del commercio e del lavoro. Un mondo intrigato, dove si sovrappongono figure diverse, quali l’archeologo, lo scavatore-inventore, lo scalpellino, il collezionista e il responsabile della tutela; una realtà che riemerge, nel saggio, nella ricostruzione del percorso compiuto - dal luogo dello scavo alla posa in opera nel manufatto architettonico - da una precisa parte delle pietre utilizzate: esattamente il giallo antico brecciato, l’africano e il cipollino provenienti dagli scavi dei Portici di Ottavia.Pubblicazioni consigliate
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