L’opera "Costumi e superstizioni dell’Appennino marchigiano" di Caterina Pigorini Beri (1845-1924) non è solo un documento di preziosa importanza archivistica e storica sugli usi dell’entroterra marchigiano di fine Ottocento, ma apre una finestra di riflessione su altre due questioni importanti: la prima è la condizione della donna intellettuale che, in assenza di una formazione specifica, conduce le sue ricerche in maniera autonoma e pionieristica. La contrapposizione che emerge è quella tra dilettantismo, legata alla sfera del femminile, e scienza, campo del dominio maschile. Poiché indipendente da una disciplina specifica e da un metodo di lavoro scientificamente strutturato l’opera di Pigorini Beri sin pone in un terreno d’incrocio tra il taccuino di viaggio, il bozzetto impressionistico, la descrizione etno-antropologica. Tuttavia, le intuizioni contenute nell’opera (si veda l’accezione di “paganità” attribuita alle manifestazioni folkloristiche locali), il lavoro di raccolta delle informazioni, la postura dell’autrice (dentro e fuori il mondo raccontato), introducono a un livello primitivo e ancora da sviluppare, quegli elementi di metodo che caratterizzeranno nel Novecento lo studio etnografico e antropologico di De Martino. La seconda questione riguarda il senso complessivo che l’autrice affida al suo racconto, in polemica con il “positivismo invadente” dell’epoca in cui vive. Da tale prospettiva l’opera sembra affondare le sue ragioni nelle posizioni “antimoderniste” di fine XIX secolo, per cui salvare dall’oblio la cultura delle realtà locali non è solo un’operazione di valore intellettuale, ma una condizione necessaria per la conoscenza del mondo.

Tra dilettantismo e scienza: La proto-etnografia di Caterina Pigorini Beri in "Costumi e superstizioni dell'Appennino marchigiano"

Faienza L
2023-01-01

Abstract

L’opera "Costumi e superstizioni dell’Appennino marchigiano" di Caterina Pigorini Beri (1845-1924) non è solo un documento di preziosa importanza archivistica e storica sugli usi dell’entroterra marchigiano di fine Ottocento, ma apre una finestra di riflessione su altre due questioni importanti: la prima è la condizione della donna intellettuale che, in assenza di una formazione specifica, conduce le sue ricerche in maniera autonoma e pionieristica. La contrapposizione che emerge è quella tra dilettantismo, legata alla sfera del femminile, e scienza, campo del dominio maschile. Poiché indipendente da una disciplina specifica e da un metodo di lavoro scientificamente strutturato l’opera di Pigorini Beri sin pone in un terreno d’incrocio tra il taccuino di viaggio, il bozzetto impressionistico, la descrizione etno-antropologica. Tuttavia, le intuizioni contenute nell’opera (si veda l’accezione di “paganità” attribuita alle manifestazioni folkloristiche locali), il lavoro di raccolta delle informazioni, la postura dell’autrice (dentro e fuori il mondo raccontato), introducono a un livello primitivo e ancora da sviluppare, quegli elementi di metodo che caratterizzeranno nel Novecento lo studio etnografico e antropologico di De Martino. La seconda questione riguarda il senso complessivo che l’autrice affida al suo racconto, in polemica con il “positivismo invadente” dell’epoca in cui vive. Da tale prospettiva l’opera sembra affondare le sue ragioni nelle posizioni “antimoderniste” di fine XIX secolo, per cui salvare dall’oblio la cultura delle realtà locali non è solo un’operazione di valore intellettuale, ma una condizione necessaria per la conoscenza del mondo.
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