Pensieri materiali Corpo, mente e causalità Simone Gozzano Introduzione Un uomo in cappa e cilindro di fronte a voi promette: “muoverò la materia con la sola forza del pensiero”. Scettici aspettate la prova. Ed ecco che, mirabilmente, egli alza un braccio. Un braccio, il suo braccio! Un pezzo di materia, dotato di massa, carica elettrica, proprietà magnetiche e quant’altro, si è mosso solo grazie alla sua volontà di alzarlo. Con la sola forza del pensiero il braccio si è sollevato! Per quanti sforzi retorici faccia, nessuno riterrà particolarmente sorprendente l’esperimento. Il fatto è che diamo per scontato che la materia possa essere mossa con la sola forza del pensiero se quella materia siamo noi. I viaggi nel tempo, o il trasferimento istantaneo di informazioni, quelli sì sarebbero davvero una sorpresa. Eppure, mentre per questi si sono in un certo senso raggiunti risultati teorici o sperimentali interessanti, ed esistono teorie che spiegano in base a quali leggi fisiche questi fenomeni possano avvenire, per quanto riguarda la nostra capacità di agire intenzionalmente ci troviamo ancora sommersi da difficoltà teoriche enormi, e il terreno rimane ancora pieno di difficoltà concettuali. Uno dei problemi più cruciali è che entrambe le opzioni metafisiche generali, il monismo e il dualismo, sono radicate nel senso comune come nella nostra tradizione culturale, e talvolta in modi davvero curiosi. Possiamo trovare richiami teologici al monismo, mentre sarebbe ragionevole pensare a una adesione esclusivo a una forma di dualismo, e derive dualiste nelle indagini di neurofisiologi contemporanei. Come esempio del primo caso voglio menzionare la procedura di pesatura delle anime che si può veder raffigurata in alcune chiese (la Cattedrale di Torcello e San Pietro a Spoleto) e che si basa sull’idea che le proprietà etiche degli individui siano riscontrabili nelle proprietà fisiche, il peso delle loro anime. Certo, si può pensare che le bilance per anime siano in effetti sensibili a proprietà non fisiche, nondimeno esse parteciperebbero di una struttura nomologica tipica delle scienze fisiche, di contro a quanto solitamente segna il confine tra regno della natura – nomologico - e regno della mente - normativo. Di contro, un recente numero di Nature (luglio 2006) apriva con un richiamo a caratteri cubitali in copertina: Trasformare il pensiero in azione [Turning thought into action]. L’uso del verbo “trasformare” dà adito all’idea che le proprietà di un dominio siano state cambiate e modificate così da divenire proprietà di un dominio diverso. Ma come notavo in apertura, non c’è nulla di sorprendente nell’idea che i nostri pensieri diventino azioni, e dobbiamo pensarla proprio così se vogliamo giustificare l’idea che le nostre azioni siano nostre, ossia risultato dei nostri atti deliberativi. In questo lavoro cercherò di offrire una risposta al problema della causalità mentale, ossia a come la nostra mente possa interagire con gli eventi del mondo fisico e da essi esserne modificata. Un problema classico, quindi assai vasto, sia per ciò che attiene la letteratura sia per quanto riguarda le questioni da affrontare. La bussola adottata è stata la seguente: se il problema è il rapporto del mentale con il mondo fisico allora va tenuto nel massimo rispetto il modo in cui il problema generale della causalità è stato affrontato entro il mondo fisico. La mia impressione è che nella letteratura filosofica non venga dedicata una sufficiente attenzione a questo aspetto, e uno degli intenti che perseguirò sarà porvi rimedio. Il libro è diviso in quattro capitoli. Nel primo si evidenziano le radici del problema mente corpo da un punto di vista più concettuale che storico. I due domini sono sempre stati tratteggiati tramite proprietà all’apparenza differenti, così da rinforzare la ragionevolezza di un approccio più o meno dualista. Emerge già qui che il problema, nella specifica declinazione causale nella quale viene qui considerato, diventa tale solo se si assume un modello di causalità adeguato alle discipline fisiche, anche se assai più controverso negli altri casi. Questo modello era nelle pagine di Leibniz, e costituiva la sua schiacciante obiezione a Descartes. Tuttavia, nell’attuale dibattito non sempre ha giocato un ruolo altrettanto cruciale. Penso sia il tempo di rimetterlo al centro della scena. Sosterrò quindi che in effetti il problema della causalità mentale e del generale rapporto tra mente e corpo è una conseguenza, piuttosto che il punto d’avvio, di un modello generale di causalità. Tale modello è da identificarsi nella teoria secondo la quale tra causa ed effetto c’è un trasferimento di una quantità conservata, una teoria sulla quale si è acceso un intenso dibattito. Nel capitolo successivo il modello di causalità fisica del trasferimento viene combinato col più generale approccio fisicalista che in questi anni si sta diffondendo. Ci sono modi assai diversi per caratterizzare il fisicalismo, che comportano conseguenze molto divergenti tra loro. Analizzerò diverse varietà di fisicalismo e la loro compatibilità sia con il modello della causalità come trasferimento, cui si faceva riferimento, sia con il dominio del mentale. Sosterrò che il principio metafisico della chiusura causale del mondo fisico può essere integrato con la visione della causalità difesa nel primo capitolo, il tutto accettando l’idea che la causalità sia una relazione tra eventi. L’ipotesi è che sussista uno spazio di manovra per la causalità mentale a condizione che le proprietà mentali, elementi cardine della relazione causale, siano identificate con le proprietà fisiche, una teoria oggi non più di gran moda. Il terzo capitolo è dedicato alla difesa della teoria dell’identità dei tipi dalle due note obiezioni: la teoria delle identità necessarie di Kripke e l’argomento della realizzabilità multipla nelle sue diverse varianti. La strada per rispondere alle obiezioni e difendere la teoria dell’identità passa attraverso una teoria delle sensazioni che metta in luce il carattere intrinsecamente causale e, in certa misura, esternistico di questi stati, combattendo così l’intuizione che le sensazioni si risolvano nelle proprietà fenomeniche di tipo qualitativo, nel cosa si prova ad averle. A supporto di questa visione verranno schierate anche un certo numero di prove empiriche, facenti capo alla letteratura medica. Nondimeno, la tesi di identità richiede che essa sia condizionata, ossia che venga vincolata a condizioni locali, un tema perseguito nell’ultimo capitolo. Il quarto capitolo è dedicato a mostrare che non c’è un’enorme distanza tra la teoria dell’identità e il funzionalismo nella sua versione di primo ordine. In questo contesto giocano un ruolo chiave i generi naturali, che soddisfano i requisiti per una teoria dell’identità senza per questo condurla nelle maglie delle critiche che l’hanno condannata. Così costruita, la teoria dell’identità è il portato dell’incontro tra analisi concettuale e ricerca empirica e un simile connubio ha tra le sue conseguenze l’abbandono dell’immagine per cui la realtà è costituita da diversi strati ontologici di complessità crescente. Di contro, l’incontro tra il piano concettuale e quello empirico che porta all’identità consente di accordare pieni poteri causali alle proprietà mentali, un desiderata al quale non è possibile rinunciare. Solo che esse vanno individuate nel mondo fisico, senza che ciò comporti la rinuncia alla forza epistemica ed esplicativa delle medesime. Alcuni possono vedere in questa posizione un’abdicazione della filosofia alla scienza. Non credo che sia compito della filosofia avocarsi regioni del sapere. Se è la scienza a dovere risolvere il problema della causalità mentale, la filosofia non può mettersi di traverso. A quest’ultima spetterà il compito di mostrare che la distanza tra le nostre intuizioni, per quanto fallimentari e confuse siano, e le descrizioni scientifiche è colmabile da una ricerca comprensibile e razionale. Frutto comunque delle nostre intuizioni.

Pensieri materiali

GOZZANO, SIMONE
2007-01-01

Abstract

Pensieri materiali Corpo, mente e causalità Simone Gozzano Introduzione Un uomo in cappa e cilindro di fronte a voi promette: “muoverò la materia con la sola forza del pensiero”. Scettici aspettate la prova. Ed ecco che, mirabilmente, egli alza un braccio. Un braccio, il suo braccio! Un pezzo di materia, dotato di massa, carica elettrica, proprietà magnetiche e quant’altro, si è mosso solo grazie alla sua volontà di alzarlo. Con la sola forza del pensiero il braccio si è sollevato! Per quanti sforzi retorici faccia, nessuno riterrà particolarmente sorprendente l’esperimento. Il fatto è che diamo per scontato che la materia possa essere mossa con la sola forza del pensiero se quella materia siamo noi. I viaggi nel tempo, o il trasferimento istantaneo di informazioni, quelli sì sarebbero davvero una sorpresa. Eppure, mentre per questi si sono in un certo senso raggiunti risultati teorici o sperimentali interessanti, ed esistono teorie che spiegano in base a quali leggi fisiche questi fenomeni possano avvenire, per quanto riguarda la nostra capacità di agire intenzionalmente ci troviamo ancora sommersi da difficoltà teoriche enormi, e il terreno rimane ancora pieno di difficoltà concettuali. Uno dei problemi più cruciali è che entrambe le opzioni metafisiche generali, il monismo e il dualismo, sono radicate nel senso comune come nella nostra tradizione culturale, e talvolta in modi davvero curiosi. Possiamo trovare richiami teologici al monismo, mentre sarebbe ragionevole pensare a una adesione esclusivo a una forma di dualismo, e derive dualiste nelle indagini di neurofisiologi contemporanei. Come esempio del primo caso voglio menzionare la procedura di pesatura delle anime che si può veder raffigurata in alcune chiese (la Cattedrale di Torcello e San Pietro a Spoleto) e che si basa sull’idea che le proprietà etiche degli individui siano riscontrabili nelle proprietà fisiche, il peso delle loro anime. Certo, si può pensare che le bilance per anime siano in effetti sensibili a proprietà non fisiche, nondimeno esse parteciperebbero di una struttura nomologica tipica delle scienze fisiche, di contro a quanto solitamente segna il confine tra regno della natura – nomologico - e regno della mente - normativo. Di contro, un recente numero di Nature (luglio 2006) apriva con un richiamo a caratteri cubitali in copertina: Trasformare il pensiero in azione [Turning thought into action]. L’uso del verbo “trasformare” dà adito all’idea che le proprietà di un dominio siano state cambiate e modificate così da divenire proprietà di un dominio diverso. Ma come notavo in apertura, non c’è nulla di sorprendente nell’idea che i nostri pensieri diventino azioni, e dobbiamo pensarla proprio così se vogliamo giustificare l’idea che le nostre azioni siano nostre, ossia risultato dei nostri atti deliberativi. In questo lavoro cercherò di offrire una risposta al problema della causalità mentale, ossia a come la nostra mente possa interagire con gli eventi del mondo fisico e da essi esserne modificata. Un problema classico, quindi assai vasto, sia per ciò che attiene la letteratura sia per quanto riguarda le questioni da affrontare. La bussola adottata è stata la seguente: se il problema è il rapporto del mentale con il mondo fisico allora va tenuto nel massimo rispetto il modo in cui il problema generale della causalità è stato affrontato entro il mondo fisico. La mia impressione è che nella letteratura filosofica non venga dedicata una sufficiente attenzione a questo aspetto, e uno degli intenti che perseguirò sarà porvi rimedio. Il libro è diviso in quattro capitoli. Nel primo si evidenziano le radici del problema mente corpo da un punto di vista più concettuale che storico. I due domini sono sempre stati tratteggiati tramite proprietà all’apparenza differenti, così da rinforzare la ragionevolezza di un approccio più o meno dualista. Emerge già qui che il problema, nella specifica declinazione causale nella quale viene qui considerato, diventa tale solo se si assume un modello di causalità adeguato alle discipline fisiche, anche se assai più controverso negli altri casi. Questo modello era nelle pagine di Leibniz, e costituiva la sua schiacciante obiezione a Descartes. Tuttavia, nell’attuale dibattito non sempre ha giocato un ruolo altrettanto cruciale. Penso sia il tempo di rimetterlo al centro della scena. Sosterrò quindi che in effetti il problema della causalità mentale e del generale rapporto tra mente e corpo è una conseguenza, piuttosto che il punto d’avvio, di un modello generale di causalità. Tale modello è da identificarsi nella teoria secondo la quale tra causa ed effetto c’è un trasferimento di una quantità conservata, una teoria sulla quale si è acceso un intenso dibattito. Nel capitolo successivo il modello di causalità fisica del trasferimento viene combinato col più generale approccio fisicalista che in questi anni si sta diffondendo. Ci sono modi assai diversi per caratterizzare il fisicalismo, che comportano conseguenze molto divergenti tra loro. Analizzerò diverse varietà di fisicalismo e la loro compatibilità sia con il modello della causalità come trasferimento, cui si faceva riferimento, sia con il dominio del mentale. Sosterrò che il principio metafisico della chiusura causale del mondo fisico può essere integrato con la visione della causalità difesa nel primo capitolo, il tutto accettando l’idea che la causalità sia una relazione tra eventi. L’ipotesi è che sussista uno spazio di manovra per la causalità mentale a condizione che le proprietà mentali, elementi cardine della relazione causale, siano identificate con le proprietà fisiche, una teoria oggi non più di gran moda. Il terzo capitolo è dedicato alla difesa della teoria dell’identità dei tipi dalle due note obiezioni: la teoria delle identità necessarie di Kripke e l’argomento della realizzabilità multipla nelle sue diverse varianti. La strada per rispondere alle obiezioni e difendere la teoria dell’identità passa attraverso una teoria delle sensazioni che metta in luce il carattere intrinsecamente causale e, in certa misura, esternistico di questi stati, combattendo così l’intuizione che le sensazioni si risolvano nelle proprietà fenomeniche di tipo qualitativo, nel cosa si prova ad averle. A supporto di questa visione verranno schierate anche un certo numero di prove empiriche, facenti capo alla letteratura medica. Nondimeno, la tesi di identità richiede che essa sia condizionata, ossia che venga vincolata a condizioni locali, un tema perseguito nell’ultimo capitolo. Il quarto capitolo è dedicato a mostrare che non c’è un’enorme distanza tra la teoria dell’identità e il funzionalismo nella sua versione di primo ordine. In questo contesto giocano un ruolo chiave i generi naturali, che soddisfano i requisiti per una teoria dell’identità senza per questo condurla nelle maglie delle critiche che l’hanno condannata. Così costruita, la teoria dell’identità è il portato dell’incontro tra analisi concettuale e ricerca empirica e un simile connubio ha tra le sue conseguenze l’abbandono dell’immagine per cui la realtà è costituita da diversi strati ontologici di complessità crescente. Di contro, l’incontro tra il piano concettuale e quello empirico che porta all’identità consente di accordare pieni poteri causali alle proprietà mentali, un desiderata al quale non è possibile rinunciare. Solo che esse vanno individuate nel mondo fisico, senza che ciò comporti la rinuncia alla forza epistemica ed esplicativa delle medesime. Alcuni possono vedere in questa posizione un’abdicazione della filosofia alla scienza. Non credo che sia compito della filosofia avocarsi regioni del sapere. Se è la scienza a dovere risolvere il problema della causalità mentale, la filosofia non può mettersi di traverso. A quest’ultima spetterà il compito di mostrare che la distanza tra le nostre intuizioni, per quanto fallimentari e confuse siano, e le descrizioni scientifiche è colmabile da una ricerca comprensibile e razionale. Frutto comunque delle nostre intuizioni.
2007
978-88-6008-173-5
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