COLLOQUIO INTERNAZIONALE DALLA CORTE DEGLI ESTE A QUELLA DI LUIGI XIV: GASPARE E CARLO VIGARANI L’ARCHITETTURA DEL TEATRO: LE CONCEZIONI ROMANE E “LOMBARDE” A CONFRONTO Sergio Rotondi ABSTRACT Nella prima metà del XVII secolo, in Italia, il grande sviluppo dell’architettura teatrale avvenne secondo due diverse tradizioni tipologico-spaziali: quella di area padana-emiliana e quella romana. La diversità fu compendiata dalle critiche che il “romano” Bernini rivolse al teatro costruito, fra il 1659 e il 1662, dal ferrarese Gaspare Vigarani alle Tuileries: soluzioni scenografiche troppo macchinose e dispendiose, eccessiva profondità del palcoscenico e dell’uditorio, non eccellenza nell’individuazione dei temi e degli eventi da rappresentare. Il Vigarani e il Bernini erano da quasi tre decenni fra i principali artefici di apparati da spettacolo, in particolare d’impianti teatrali: strutture lignee, fisse o effimere, in genere allestite all’interno di un fabbricato preesistente. A Roma, fino a oltre la metà del secolo XVII, gli spettacoli mantennero un carattere privato; in Emilia invece alcune iniziative avevano assunto rapidamente un’accezione imprenditoriale, di tipo pubblico. Le osservazioni del Bernini si appuntavano principalmente sui criteri di “messa in scena”, ma la contrapposizione riguardava anche l’impianto dell’uditorio, alla cui definizione in area emiliana si era dato un apporto molto significativo, principalmente per merito prima dell’Aleotti e poi del Vigarani. Quest’ultimo, nei suoi più noti teatri, quello ducale di Modena (1654-1656) e quello delle Tuileries (1659-1662) risolse secondo una nuova euritmia architettonica lo spazio interno principale, formato dall’uditorio (con pianta a U) e dal palcoscenico (molto esteso e attrezzato): coesione spaziale, gradazione e legato delle membrature. A Roma, dove pure nei primi anni ’30 erano state trapiantate dal ferrarese Guitti alcune fondamentali invenzioni d’origine emiliana, solo il boccascena rappresentava un valore architettonico; il celebre e grande teatro Barberini ne aveva uno a colonne binate, di derivazione ferrarese, mentre il suo uditorio era semplice e funzionale. In Emilia il teatro pubblico era stato risolto probabilmente secondo più soluzioni tipologiche, comprese quelle prime forme di teatro “all’italiana”, con uditorio a U e file sovrapposte di palchetti, d’origine veneziana. Così era strutturato il teatro della Comunità a Reggio Emilia (1637-1639, progettato forse da Gaspare Vigarani), con la particolarità, poi caratteristica della tradizione padana, che le ali dei palchetti si divaricavano procedendo verso il palcoscenico, dal quale restavano staccate. A Roma un impulso alla ricerca sull’architettura teatrale fu innescato dall’incarico che nel 1669 il conte Giacomo D’Alibert, d’origine francese, conferì all’architetto Carlo Fontana per la costruzione del primo, vero e proprio teatro pubblico della città, il Tordinona: un’operazione fortemente auspicata anche da Cristina di Svezia. Carlo Fontana, l’architetto d’origine lombardo-ticinese che si era stabilito a Roma negli anni ’50 come collaboratore del Bernini e che sarebbe diventato ben presto influente e prestigioso anticipatore del barocco classicistico, s’impegnò nell’impresa progettuale con spirito decisamente innovativo. Il suo percorso però fu alquanto, accidentato, con risvolti che sarebbero rimasti per lungo tempo occultati e sconosciuti e di cui fu viatico iniziale un “bagno”, approfondito ma critico, nella tradizione di architettura teatrale del nord. Il Tordinona presentava un uditorio a palchetti sovrapposti, con pianta a U; le ali erano svasate, come negli esempi emiliani, però si saldavano al palcoscenico cosicché gli stessi palchetti partecipavano dell’architettura del boccascena. Questo intercorrere di nuovi rapporti fra Roma e l’Emilia, confermato da un altro interessante progetto, non realizzato, di Carlo Fontana per un teatro a via del Corso, non fu a senso unico ma reciproco. Intorno al 1674, infatti, nel teatro della Comunità di Reggio Emilia furono tolti, dall’architetto Orazio Talami, dei palchetti centrali per far luogo a uno stabile palco ducale; contemporaneamente ne furono aggiunti altri lateralmente, unendo l’uditorio al palcoscenico. Entrambe le trasformazioni rimandano al Tordinona, teatro probabilmente ben conosciuto dal Talami che aveva da poco soggiornato a Roma. La soluzione dell’uditorio saldato all’arcoscenico non divenne tipica dell’area padana-emiliana; Carlo Fontana, invece, continuò a proporla, nell’ambito però di una nuova visione di architettura teatrale anticipatrice dei temi tipologici e semantici dell’architettura illuminista. Tale importante sviluppo è testimoniato principalmente da due progetti non realizzati, distanziati di qualche anno, simili fra loro ma non identici. Il primo riguardava una variante per il teatro Tordinona; il secondo, di eccezionale valore urbano, un teatro che si pensava di costruire a via Margutta. In entrambi, il teatro diventava monumento, esempio inedito d’integrità tipologica e costruttiva. Il sistema a palchetti non era a pianta svasata ma a porzione di ovale, riecheggiando così una spazialità teatrale classica che confluiva direttamente nell’invaso del palcoscenico. All’esterno, l’andamento volumetrico rifletteva la geometria dell’interno e restava ritmato da alcuni blocchi di scale; nel teatro a via Margutta, in particolare, il significato urbano era amplificato dall’inserimento di portici lungo il perimetro. I due progetti, come s’è detto, restarono sulla carta, e quando, nel 1695, si riuscì a ricostruire il Tordinona, la soluzione fu alla fine più realistica, priva, fra l’altro di rappresentatività urbana, ma comunque innovativa. Il grande impianto dei palchetti era completamente ligneo, con pianta non ovale, ma a U; le ali, comunque, convergevano secondo la fuga prospettica delle quinte, avanzando anche sulla scena a serrare lateralmente il proscenio. Il Tordinana, l’espressione forse più complessa e avanzata di teatro pubblico in seno alla società barocca, ebbe vita breve: già nel 1697 il papa Innocenzo XII ne ordinava la distruzione proibendo contemporaneamente ogni forma di teatro pubblico, a pagamento. Cessarono così la loro attività a Roma anche due illustri architetti-scenografi, i padani Ferdinando e Francesco Bibiena. Quest’ultimo ritornò nel 1719, alcuni anni dopo la riapertura dei teatri pubblici, con l’incarico della ricostruzione del teatro Alibert. Nello stesso periodo, il Bibiena confermava mirabilmente la sua personale e originale concezione di spazio teatrale con la realizzazione del teatro Filarmonico di Verona: un percorso di ricerca rispetto cui l’esperienza dell’Alibert costituì profonda anomalia. A Verona, infatti, l’impianto derivò da un’originale sintesi di apporti padani, dal Vigarani al Seghizzi; solo il tipo di scale principali, articolato fra ordine e ordine in tre rampe, fu ripreso dal Tordinona del 1695. A Roma, invece, l’impianto era decisamente fontaniano: uditorio a U, con ali convergenti, estese a costituire un proscenio. Questa vicenda confermò, paradossalmente, l’irriducibilità delle due tradizioni d’architettura teatrale, romana ed emiliana. Successivamente, i teatri dei Bibiena, in Italia e all’estero, avrebbero riproposto una concezione architettonica complessa, un’organicità esuberante e pulsante. Il teatro Alibert sancì invece un valore ambientale di semplice spazialità, cui si attennero i principali teatri romani e che trovò, nel 1732, l’espressione più proporzionata e conchiusa nel celebre Argentina, la cui sala a “ferro di cavallo” divenne ben presto quella tipica del teatro all’italiana.
L'architettura del teatro: le concezioni romana e lombarda a confronto
ROTONDI, SERGIO
2009-01-01
Abstract
COLLOQUIO INTERNAZIONALE DALLA CORTE DEGLI ESTE A QUELLA DI LUIGI XIV: GASPARE E CARLO VIGARANI L’ARCHITETTURA DEL TEATRO: LE CONCEZIONI ROMANE E “LOMBARDE” A CONFRONTO Sergio Rotondi ABSTRACT Nella prima metà del XVII secolo, in Italia, il grande sviluppo dell’architettura teatrale avvenne secondo due diverse tradizioni tipologico-spaziali: quella di area padana-emiliana e quella romana. La diversità fu compendiata dalle critiche che il “romano” Bernini rivolse al teatro costruito, fra il 1659 e il 1662, dal ferrarese Gaspare Vigarani alle Tuileries: soluzioni scenografiche troppo macchinose e dispendiose, eccessiva profondità del palcoscenico e dell’uditorio, non eccellenza nell’individuazione dei temi e degli eventi da rappresentare. Il Vigarani e il Bernini erano da quasi tre decenni fra i principali artefici di apparati da spettacolo, in particolare d’impianti teatrali: strutture lignee, fisse o effimere, in genere allestite all’interno di un fabbricato preesistente. A Roma, fino a oltre la metà del secolo XVII, gli spettacoli mantennero un carattere privato; in Emilia invece alcune iniziative avevano assunto rapidamente un’accezione imprenditoriale, di tipo pubblico. Le osservazioni del Bernini si appuntavano principalmente sui criteri di “messa in scena”, ma la contrapposizione riguardava anche l’impianto dell’uditorio, alla cui definizione in area emiliana si era dato un apporto molto significativo, principalmente per merito prima dell’Aleotti e poi del Vigarani. Quest’ultimo, nei suoi più noti teatri, quello ducale di Modena (1654-1656) e quello delle Tuileries (1659-1662) risolse secondo una nuova euritmia architettonica lo spazio interno principale, formato dall’uditorio (con pianta a U) e dal palcoscenico (molto esteso e attrezzato): coesione spaziale, gradazione e legato delle membrature. A Roma, dove pure nei primi anni ’30 erano state trapiantate dal ferrarese Guitti alcune fondamentali invenzioni d’origine emiliana, solo il boccascena rappresentava un valore architettonico; il celebre e grande teatro Barberini ne aveva uno a colonne binate, di derivazione ferrarese, mentre il suo uditorio era semplice e funzionale. In Emilia il teatro pubblico era stato risolto probabilmente secondo più soluzioni tipologiche, comprese quelle prime forme di teatro “all’italiana”, con uditorio a U e file sovrapposte di palchetti, d’origine veneziana. Così era strutturato il teatro della Comunità a Reggio Emilia (1637-1639, progettato forse da Gaspare Vigarani), con la particolarità, poi caratteristica della tradizione padana, che le ali dei palchetti si divaricavano procedendo verso il palcoscenico, dal quale restavano staccate. A Roma un impulso alla ricerca sull’architettura teatrale fu innescato dall’incarico che nel 1669 il conte Giacomo D’Alibert, d’origine francese, conferì all’architetto Carlo Fontana per la costruzione del primo, vero e proprio teatro pubblico della città, il Tordinona: un’operazione fortemente auspicata anche da Cristina di Svezia. Carlo Fontana, l’architetto d’origine lombardo-ticinese che si era stabilito a Roma negli anni ’50 come collaboratore del Bernini e che sarebbe diventato ben presto influente e prestigioso anticipatore del barocco classicistico, s’impegnò nell’impresa progettuale con spirito decisamente innovativo. Il suo percorso però fu alquanto, accidentato, con risvolti che sarebbero rimasti per lungo tempo occultati e sconosciuti e di cui fu viatico iniziale un “bagno”, approfondito ma critico, nella tradizione di architettura teatrale del nord. Il Tordinona presentava un uditorio a palchetti sovrapposti, con pianta a U; le ali erano svasate, come negli esempi emiliani, però si saldavano al palcoscenico cosicché gli stessi palchetti partecipavano dell’architettura del boccascena. Questo intercorrere di nuovi rapporti fra Roma e l’Emilia, confermato da un altro interessante progetto, non realizzato, di Carlo Fontana per un teatro a via del Corso, non fu a senso unico ma reciproco. Intorno al 1674, infatti, nel teatro della Comunità di Reggio Emilia furono tolti, dall’architetto Orazio Talami, dei palchetti centrali per far luogo a uno stabile palco ducale; contemporaneamente ne furono aggiunti altri lateralmente, unendo l’uditorio al palcoscenico. Entrambe le trasformazioni rimandano al Tordinona, teatro probabilmente ben conosciuto dal Talami che aveva da poco soggiornato a Roma. La soluzione dell’uditorio saldato all’arcoscenico non divenne tipica dell’area padana-emiliana; Carlo Fontana, invece, continuò a proporla, nell’ambito però di una nuova visione di architettura teatrale anticipatrice dei temi tipologici e semantici dell’architettura illuminista. Tale importante sviluppo è testimoniato principalmente da due progetti non realizzati, distanziati di qualche anno, simili fra loro ma non identici. Il primo riguardava una variante per il teatro Tordinona; il secondo, di eccezionale valore urbano, un teatro che si pensava di costruire a via Margutta. In entrambi, il teatro diventava monumento, esempio inedito d’integrità tipologica e costruttiva. Il sistema a palchetti non era a pianta svasata ma a porzione di ovale, riecheggiando così una spazialità teatrale classica che confluiva direttamente nell’invaso del palcoscenico. All’esterno, l’andamento volumetrico rifletteva la geometria dell’interno e restava ritmato da alcuni blocchi di scale; nel teatro a via Margutta, in particolare, il significato urbano era amplificato dall’inserimento di portici lungo il perimetro. I due progetti, come s’è detto, restarono sulla carta, e quando, nel 1695, si riuscì a ricostruire il Tordinona, la soluzione fu alla fine più realistica, priva, fra l’altro di rappresentatività urbana, ma comunque innovativa. Il grande impianto dei palchetti era completamente ligneo, con pianta non ovale, ma a U; le ali, comunque, convergevano secondo la fuga prospettica delle quinte, avanzando anche sulla scena a serrare lateralmente il proscenio. Il Tordinana, l’espressione forse più complessa e avanzata di teatro pubblico in seno alla società barocca, ebbe vita breve: già nel 1697 il papa Innocenzo XII ne ordinava la distruzione proibendo contemporaneamente ogni forma di teatro pubblico, a pagamento. Cessarono così la loro attività a Roma anche due illustri architetti-scenografi, i padani Ferdinando e Francesco Bibiena. Quest’ultimo ritornò nel 1719, alcuni anni dopo la riapertura dei teatri pubblici, con l’incarico della ricostruzione del teatro Alibert. Nello stesso periodo, il Bibiena confermava mirabilmente la sua personale e originale concezione di spazio teatrale con la realizzazione del teatro Filarmonico di Verona: un percorso di ricerca rispetto cui l’esperienza dell’Alibert costituì profonda anomalia. A Verona, infatti, l’impianto derivò da un’originale sintesi di apporti padani, dal Vigarani al Seghizzi; solo il tipo di scale principali, articolato fra ordine e ordine in tre rampe, fu ripreso dal Tordinona del 1695. A Roma, invece, l’impianto era decisamente fontaniano: uditorio a U, con ali convergenti, estese a costituire un proscenio. Questa vicenda confermò, paradossalmente, l’irriducibilità delle due tradizioni d’architettura teatrale, romana ed emiliana. Successivamente, i teatri dei Bibiena, in Italia e all’estero, avrebbero riproposto una concezione architettonica complessa, un’organicità esuberante e pulsante. Il teatro Alibert sancì invece un valore ambientale di semplice spazialità, cui si attennero i principali teatri romani e che trovò, nel 1732, l’espressione più proporzionata e conchiusa nel celebre Argentina, la cui sala a “ferro di cavallo” divenne ben presto quella tipica del teatro all’italiana.Pubblicazioni consigliate
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