Un ruolo cruciale nel controllo della omeostasi cellulare e, di conseguenza, nel processo di induzione neoplastica vienne riconosciuto alla p53 (“tumor suppressor gene”), un antioncogene trovato mutato con una incidenza significativamente elevata nella maggior parte dei tumori dell’organismo. Nelle neoplasie oro-maxillo-facciali le percentuali di mutazione della p53 variano dal 4% al 60%. Studi in vitro su tumori colo-rettali, della mammella, del polmone, dell’ovaio, del testicolo, della vescica, e nelle leucoblastosi, hanno messo in evidenza una correlazione tra alterazioni della p53 e chemioresistenza. La relazione funzionale tra la p53 e l’azione di alcuni composti chemioterapici, quelli che danneggiano direttamente il DNA, risiede nell’apoptosi, un meccanismo fisiologico attivato dalla p53 a scopo omeostatico (regolazione della crescita cellulare) e nello stesso tempo necessario per l’azione dei suddetti chemioterapici (l’apoptosi è un processo irreversibile che culmina con la morte cellulare). Se nelle cellule del tessuto neoplastico la p53 è mutata l’apoptosi non viene attivata e ciò può ripercuotersi negativamente sulla citoriduzione ottenibile con la chemioterapia. Tali acquisizioni hanno portato a prime applicazioni in campo clinico. Nei tumori della mammella la p53 viene già utilizzata come marker di chemioresponsività, indirizzando il protocollo chemioterapico, nei casi di mutazione, verso l’utilizzo di composti alternativi (es. il Taxolo), che hanno una azione svincolata dal sistema dell p53. In tumori del polmone si è arrivati, addirittura, ad introdurre la molecola “wild-type” della p53 nelle cellule neoplastiche con l’oncogene mutato, utilizzando tecniche di transfezione con retrovirus, ottenendo una migliore risposta clinica al trattamento chemioterapico. Nelle neoplasie oro-maxillo-facciali, come noto, il trattamento cardine è quello chirurgico. Gli AA sottolineano come nelle forme tumorali particolarmente avanzate esso, come noto, sia inserito in un protocollo multimodale in cui, con precise indicazioni, ha un importante ruolo la chemioterapia neoadiuvante. La possibilità, quindi, che lo studio genetico offre di valutare preventivamente lo “status” della p53, può costituire, a loro avviso, unitamente ai ben noti parametri di valutazione prognostica, un elemento specifico di screening, indicativo della chemioresponsività del tessuto neoplastico, con indubbio vantaggio ai fini della impostazione terapeutica e, in particolare, della programmazione chirurgica.

Mutazioni della p53 e chemioresistenza nei carcinomi squamosi oro-maxillo-facciali. 1. Ruolo della p53 nel controllo del ciclo cellulare e nel modulare l'azione dei composti chemioterapici

CUTILLI, Tommaso;
1997-01-01

Abstract

Un ruolo cruciale nel controllo della omeostasi cellulare e, di conseguenza, nel processo di induzione neoplastica vienne riconosciuto alla p53 (“tumor suppressor gene”), un antioncogene trovato mutato con una incidenza significativamente elevata nella maggior parte dei tumori dell’organismo. Nelle neoplasie oro-maxillo-facciali le percentuali di mutazione della p53 variano dal 4% al 60%. Studi in vitro su tumori colo-rettali, della mammella, del polmone, dell’ovaio, del testicolo, della vescica, e nelle leucoblastosi, hanno messo in evidenza una correlazione tra alterazioni della p53 e chemioresistenza. La relazione funzionale tra la p53 e l’azione di alcuni composti chemioterapici, quelli che danneggiano direttamente il DNA, risiede nell’apoptosi, un meccanismo fisiologico attivato dalla p53 a scopo omeostatico (regolazione della crescita cellulare) e nello stesso tempo necessario per l’azione dei suddetti chemioterapici (l’apoptosi è un processo irreversibile che culmina con la morte cellulare). Se nelle cellule del tessuto neoplastico la p53 è mutata l’apoptosi non viene attivata e ciò può ripercuotersi negativamente sulla citoriduzione ottenibile con la chemioterapia. Tali acquisizioni hanno portato a prime applicazioni in campo clinico. Nei tumori della mammella la p53 viene già utilizzata come marker di chemioresponsività, indirizzando il protocollo chemioterapico, nei casi di mutazione, verso l’utilizzo di composti alternativi (es. il Taxolo), che hanno una azione svincolata dal sistema dell p53. In tumori del polmone si è arrivati, addirittura, ad introdurre la molecola “wild-type” della p53 nelle cellule neoplastiche con l’oncogene mutato, utilizzando tecniche di transfezione con retrovirus, ottenendo una migliore risposta clinica al trattamento chemioterapico. Nelle neoplasie oro-maxillo-facciali, come noto, il trattamento cardine è quello chirurgico. Gli AA sottolineano come nelle forme tumorali particolarmente avanzate esso, come noto, sia inserito in un protocollo multimodale in cui, con precise indicazioni, ha un importante ruolo la chemioterapia neoadiuvante. La possibilità, quindi, che lo studio genetico offre di valutare preventivamente lo “status” della p53, può costituire, a loro avviso, unitamente ai ben noti parametri di valutazione prognostica, un elemento specifico di screening, indicativo della chemioresponsività del tessuto neoplastico, con indubbio vantaggio ai fini della impostazione terapeutica e, in particolare, della programmazione chirurgica.
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